Arrivo in Bulgaria con ancora nella testa le sonorità esplosive di “Climbing up the walls” dei Radiohead, ascoltata in loop durante le ultime ore di viaggio tra la campagna bulgara ed i suoi sconfinati campi di girasole, dai quali si ricavano dei salati e gustosi semi essiccati che, scoprirò, accompagnano birra e rakija nei pub di Sofia. Dannati Radiohead, che anche a distanza di anni ti scavano dentro e ti scompongono l’anima, contrapponendo ciò che sei a quello che invece vorresti, e ti fanno discutere con te stesso, sdoppiato.
Scendo a Sofia e mi ritrovo in una città molto più austro-ungarica che balcanica. I tram, gli edifici, i colori e gli odori per le strade, tutto mi riporta alla mente ad una capitale del nord della Mitteleuropa. È con questa sensazione che, nel raggiungere casa di Alena, la ragazza che mi ospiterà nei prossimi giorni, non posso fare a meno che fermarmi per fotografare la scena dolcissima di un’anziana coppia Rom, dedita con estrema fatica, a spingere un carrello carico di nuovi oggetti trovati in giro per la città

Grazie ad Alena, che mi fa da interprete, capisco che sono originari di Dobrolevo, un villaggio gipsy al ridosso del Danubio, ai confini con la Romania. Io e Alena ci guardiamo, e senza bisogno di aggiungere altro abbiamo già deciso. È lì che andremo il giorno successivo.
Partiamo la mattina presto, ma mentre siamo già in strada sentiamo per radio che proprio a nord, nel distretto di Veliko Tarnovo, c’è stata un’inondazione e che, facendo seguito a quelle dei giorni precedenti nel distretto di Varna, gruppi di volontari da tutto il paese si stavano recando sul posto. Ancora una volta, tra me e Alena non c’è bisogno di giri di parole; il tempo di tradurmi cosa diceva la radio, e di capire che la zona inondata è a meno di due ore da Dobrolevo, e la decisione è già presa. Andiamo.
Arriviamo a Miziya, un villaggio di 3.000 persone, quando le operazioni di deflusso dell’acqua sono ancora in atto, e per quanto limitatamente possibile, diamo una mano a recuperare il salvabile nelle case di due signore troppo anziane per concepire un nuovo inizio al di fuori delle abitazioni di una vita, ormai distrutte.
Raccogliamo inoltre materiale, ascoltiamo le storie delle persone accorse sul posto, e veniamo a sapere da altri volontari che decine di rifugiati Siriani, partiti dai campi profughi bulgari di Harmanli, si sono spontaneamente offerti e diretti nelle zone a nord est del paese, per dare una mano alla popolazione locale


È la bella notizia che aspettavamo, che da a me ed Alena la forza di lasciare Miziya, ed apprezzando sempre di più la ragazza al mio fianco, da lì a poco siamo a Dobrolevo.
Questo piccolo villaggio rurale, interamente popolato da gipsy, i cui abitanti vivono autonomamente e di autosufficienza alimentare data dagli orti da loro coltivati, sembra non esistere per i più e di sicuro non è tracciato da turisti o viaggiatori, tanto che appena tiro fuori la mia Nikon i pochi bambini che si erano incuriositi a noi seguendoci per i campi confinanti, scappano via per la timidezza. Ok, prima mossa sbagliata, la mia. Dopo un giusto rimprovero da Alena, qualcosa che tradotto somiglia a un “brutto coglione, tieni dentro la fotocamera”, ripartiamo da zero. Ripartiamo da Yhea, un ragazzo che ci viene incontro a petto nudo chiedendoci incuriosito come eravamo capitati lì. Gli rispondo che siamo turisti, Alena traduce viaggiatori. Lui sorride e mostra ancora meglio il tatuaggio che ha sul petto. Gli chiedo candidamente cosa significhi quella scritta. La risposta è altrettanto diretta. Questa la sua versione: da piccolo scavava nelle tombe, per via delle sue mani sottili. Quel tatuaggio è un ricordo di quel periodo. Scoppiamo tutti e tre in una sincera e inaspettata risata.

Yhea ci fa da guida per le case del villaggio, e con le famiglie di Dobrolevo arriviamo ad un accordo. Posso fotografare tutto ciò che voglio, ma ad una sola condizione. Ritornato a Sofia dovrò stampare le foto e spedirgliele per posta. In mancanza di televisione e radio, saranno le mie foto a far loro compagnia, quando lo vorranno. Accordo raggiunto, ho appena ricevuto l’onore di diventare il fotografo ufficiale della gente di Dobrolevo.



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Ed è allora, mentre faccio mettere in posa una famiglia per una loro foto ricordo, che casualmente veniamo a sapere (questa la versione dell’intervistata) delle ambizioni di controllo del partito turco sul villaggio di Dobrolevo, e dell'eroica resistenza a facili tentazioni elettorali, da parte della gente gipsy del villaggio. "Le mia case l'hanno costruita i comunisti, e io voterò sempre comunista, non mi importa di ciò che potrebbe accadermi....non temo rappresaglie", queste le parole dell'intervistata.
È abbastanza per tornare a Sofia. Ripartiamo, scarico sul PC di Alena le foto promesse, il tempo di assaggiare le delizie della cucina bulgara (Tarator, Kavarma e Pogacha in primis…..), e dopo due giorni prendo un treno, che complici problemi di manutenzione dei macchinari, si concretizza in un viaggio di 14 ore. Direzione Istanbul.